Una rondine è un animale leggero e inquieto: il suo elegante profilo nero vibra contro i bordi del cielo primaverile, che diventa tale solo quando la singola rondine si fa moltitudine e riempie l’aria di cinguettii striduli ma felici.
Ecco, questa è l’idea che c’è alla base della nostra collana di narrativa, una collana nervosa ma attenta, inquieta ma felice, magari arrabbiata, magari feroce, ma sempre presente. Siccome è estate, vogliamo raccontarvi come le Rondini popolano l’Italia, da nord a sud, nelle loro ambientazioni.
Partiamo da un percorso complessivo: con Odi e con Future, antologie di narrazioni a tema scritte da mani diverse, percorriamo l’Italia in lungo e in largo, guardandone la bellezza e le storture, denunciando le mancanze ed evidenziando le presenze laddove, talvolta, queste presenze tendono a farsi sfondo e dovrebbero essere soggetto. Se le voci di Odi erano quelle di una generazione di giovanə narratorə cinicə e disillusə, le ragazze di Future aprono mondi e universi: denunciano ma pretendono, si riappropriano di un presente assoluto e lo trasformano nel proprio futuro e nel futuro di tuttə.
Io sono nata bianca da chi ha fallito nell’esserlo. Sono nata e sono stata cresciuta nell’implicito dovere di cancellare il marchio, di nascondere l’indicibile da cui avevo origine, per spezzare così la catena del fallimento. Sono cresciuta nell’angoscia di dover mascherare un’infamia originaria. Non ho imparato la lingua di mio padre, non ho mai visto la sua terra, non conosco la storia della mia famiglia: ero bianca. Ma la normalità è stata la mia angoscia.
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Dal momento in cui apre gli occhi, la giovane donna speciale è un contenitore all’interno del quale si deposita un distillato di odio denso e furibondo, implacabilmente democratico, generosamente ripartito tra chiunque ne intercetti le traiettorie. E considerato il discreto numero di colleghi, conoscenti, consanguinei e perfetti sconosciuti con cui interagisce, sono parecchie persone, compresa lei stessa.
L’Italia, da nord al centro, è percorsa anche da Giulio Pedani, che ne L’Iguana era a pezzi parte da Oulx, al confine con Torino, per intraprendere quella che Wu Ming 2 ha definito ‘una preghiera laica’, una forma camminante di elaborazione del lutto. Lungo la Via Francigena, da Torino a Roma, il protagonista Cile ripercorre la propria storia, che è anche la storia di tre amici, che è anche la storia d’Italia.
Ascolto al tramonto l’Iguana dopo una giornata intera, l’ennesima, di silenzio, sudore e fatica. L’Iguana canta il suo disco nuovo di zecca, mentre a bordo strada sfilano carcasse di volpi e porcospini, uccelli schiacciati, decine di pacchetti di sigarette, imballaggi e buste di plastica, bottiglie, scatoloni, assi di legno, stoffe luride, pezzi di mobilio, copertoni, cerchioni, parti di motore. Un metro alla mia destra ruggisce il flusso della Provinciale. Qualche camionista mi saluta. Rispondo sempre troppo tardi. Il mio braccio alzato si perde nella scia del fumo di un diesel che tra pochi anni sarà forse fuorilegge. È domenica, brindo alla forza di arrivare alla fine, all’Iguana che è qui, a Igor che dorme.
Sempre a nord andiamo a Venezia, la città dove si compie il destino dei protagonisti di Materia. Mai nominata ma perfettamente visibile nella copertina, la Venezia di Jacopo La Forgia è il regno delle acque e dell’apocalisse dolce, in una narrazione che pare più una profezia che una distopia.
«Tu questa città la odi, Elena» disse l’elefante «E non hai torto. Il mare che la circonda è arrabbiato, è furioso, e insieme soffre terribilmente. “Per ingoiare la terra ci ho messo un tempo lunghissimo, ma tentano ancora di sottrarmi il mio dominio!” sta dicendo adesso. Ripete le stesse parole in continuazione».
«E io cosa c’entro?»
«Tu fai in modo che la città non affondi».
Si scende verso la Toscana, dove a Firenze incontriamo Simone Lisi: che sia Firenze lo possiamo supporre noi, in base alle origini del narratore, ma la città è innominata, sospesa come tutta l’atmosfera di questo romanzo intimo e universale che prende in giro, bonario e cattivo, una generazione di incertezza perenne.
Esiste solo la vita borghese ha detto Andreas, dopo una serie di frasi che ci giravano intorno, circa il senso di fare un mutuo trentennale per comprarsi la casa.
«Comprarsi la morte» ha chiosato lui. «Comprarsi un posto dove invecchiare, dove ci colga la malattia, quando indosseremo i borselli a tracolla. I borselli di oggi sono come i cappelli negli anni cinquanta, e questa cosa dell’abbigliamento dice tanto».
Dalla Toscana ci si sposta in Umbria, dove vivono Rino e Ada, i protagonisti del romanzo di Anja Trevisan ultimo arrivo della nostra collana: una storia di amore e di oppressione, di candore e brutture sconfinate. Chiedete a Anja come mai ha scelto l’Umbria come ambientazione di Ada brucia, la risposta sarà sorprendente: sorprendente invece forse non è l’ambientazione marchigiana di Crocevia di punti morti di Matteo Grilli, che del suo paese d’origine, Pagliare del tronto, ha fatto un’opera d’arte virtuale. La città mai nominata diventa il Pozzo, oggetto magico e metafora di ogni orribile stortura della provincia, magico e terrificante nella narrazione che molto deve a Stephen King ma molto è anche d’importazione giapponese, anime e manga, shojo e orrore.
Faccio un paio di giri per il pozzo imparo a memoria le strade e i nomi degli abitanti capisco fino a dove posso spingermi nelle mie camminate la gente del pozzo mi vede e non mi vede dipende come stanno io mi faccio i cazzi miei a volte qualcuno che ha bevuto tipo trenta birre mi rompe i coglioni ma io basta che sorrido e quello parte di testa piangono tutti tranne i nani umani i bambini a loro non frega un cazzo della mia esistenza mi fanno una paura forse perché effettivamente non sono mai nato davvero.
Una certa visione d’adolescenza nel periodo degli anime, ma con una virata borgatara e legatissima alle seconde vite virtuali è quella di Chilografia. La protagonista Palla rotola in un territorio al confine tra Lazio e Abruzzo, dove il sangue non ha plurale ma le cattiverie sì.
«Passami uno strappo di scottex. Faccio io statti fermo. Fai venire di qua Clara, che si fredda. Quante cazzo di volte te lo devo dire? Muoviti. Burino! Manco l’italiano. No ninnina non piangere a mamma, cantiamo. Cantiamo, Mina. Come fa la canzone. Va a scuola col cestello pieno pieno di pizzutello. Non piangere ninni che se piangi tu, mamma che fa? Che fa mamma? Zitta mamma zitta, cantiamo. Se lo vede la maestra, la butta… la butta… giù! dalla finestra!»
Raffaele Mozzillo racconta la terra difficile dei cosiddetti fuochi, la Campania del casertano, e lo fa la prima volta raccontandone la camorra in minore attraverso gli occhi di Lello, i grani del rosario, i rituali pagani e un alone di fragole e dissoluzione, la seconda costruendo un impianto narrativo più solido ma non meno feroce, tenuto insieme dall’odio e dalla calce.
Ecco, viene con le nubi; come nell’Apocalisse. Ma le nubi si stracciano. E quella che arriva è una forma di giudizio universale circoscritto – famigliare e privato – a cui sopravvive uno e uno soltanto. Si chiama Salvatore.
Come suo nonno, dicono.
Infine c’è il pulviscolare nonluogo di Sergio Oricci, che si fa frammentazione e virtuale: ambientato in un’opera di Cattelan o in una performance corporea ipercontemporanea, in un videogioco o in un capsule hotel, Cereali al neon è il nostro libro sul non essere, su una narrazione che tende a farsi difficile, inafferrabile.
Sento la tensione salire perché non so, nessuno lo sa, se, come e quando l’universo esploderà. La stanza bianca si è riempita di stelle, pianeti e buchi neri. Siamo osservatori in un planetario fatto di gomma, elio e fato. Mi attraversa la mente Piero Manzoni, che forse era un looner.
I testi, i luoghi, le storie si rincorrono e si parlano, si riecheggiano in una moltitudine cinguettante di dialetti. La nostra prossima Rondine si poserà a Livorno, con gli anni incerti narrati da Emiliano Dominici: e la vostra qual è?